ANC Segrate

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sabato 28 giugno 2014

confidenze dal fondatore del ROS

gen. Mario Mori


Il ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) nasce il 3 dicembre del 1990, e l'allora tenente colonnello Mori ne è uno dei fondatori. La struttura, individuata quale Servizio Centrale Investigativo, assume, per l’Arma dei carabinieri, la competenza a livello nazionale delle indagini nel settore della criminalità organizzata e terroristica. Mario Mori ne cura la definizione della struttura ordinativa e della dottrina d’impiego, assumendo anche il comando del I Reparto.

Nel libro "Ad Alto Rischio", scritto a quattro mani con il giornalista Giovanni Fasanella, il generale Mori non svela segreti di stato ma esprime con franchezza il suo punto di vista su molti argomenti interessanti.


Mario Mori sulle sue origini:
"Sono nato a Postumia Grotte (ex-territorio di Trieste) il 16 maggio 1939. Vuol dire che sono nato in Italia e otto anni dopo la mia terra non era più italiana.  Non mi considero un profugo in senso stretto ma oggi posso dire di non aver mai apprezzato il modo con cui il governo italiano si è sbarazzato dell'ingombrante problema rappresentato da quelle terre e da quelle popolazioni. L'esperienza della frontiera, il limite oltre il quale c'è un nemico mortale, tanto più insidioso in quanto a un passo da casa, ha condizionato l'intera storia italiana del dopoguerra e naturalmente anche quella della famiglia Mori e la mia personale. Mio padre Francesco era un ufficiale dei Carabinieri. Io ne ho seguito le vicende e i trasferimenti, e quindi ho dovuto compiere i miei studi in giro per l'Italia. Ho accompagnato mio padre nelle sue peregrinazioni, ne ho condiviso i disagi che spesso procura la vita da carabiniere, ma anche l'esempio, i valori morali, i principi. E ne ho seguito le orme professionali. Frequentai i corsi dell'Accademia militare di Modena e quelli della Scuola di applicazione di Torino. Poi entrai nell'Arma e nel 1966 fui promosso tenente."


Alcune testimonianze di. Mario Mori sulla nascita del ROS:


“La selezione degli uomini avveniva solo per chiamata diretta, uno ad uno, perché cercavamo solo personale specializzato e con un’esperienza di impiego continuativo in settori operativi; meglio pochi ma buoni.”


“La filosofia del nuovo codice di procedura penale aveva determinato una sorta di genericità professionale e di deresponsabilizzazione, persino una riluttanza all’impiego totale delle strutture nell’attività investigativa.”


“Nella lotta contro il nemico servivano specializzazione e duttilità.”


“Quando ero con Alberto Dalla Chiesa al nucleo anti-terrorismo ci diceva sempre: ‘doveste sforzarvi di conoscere - e possibilmente anche usare – il vocabolario e le tecniche dei vostri avversari, perché così sarete in grado di individuare il filo conduttore dei loro ragionamenti e di anticipare le loro mosse'.”


“Tra i primi uomini del ROS devo citare il maresciallo Giuseppe Sibilia, una persona colta, solare e di grande sensibilità; era stato uno dei più stretti collaboratori del colonnello Giuseppe Russo, ucciso dalla mafia nel 1977; con i suoi insegnamenti e i suoi consigli il maresciallo Sibilia non è solo un prezioso collaboratore, è un fratello maggiore”.


“Fin dai primi tempi abbiamo acquisito un vantaggio strategico rispetto al nostro avversario raggiungendo una “superiorità informativa”; perché questo era il principio base che ispirava l’intera dottrina del reparto, un concetto semplice ma efficace: acquisire più dati possibili sui tuoi nemici senza farti scoprire e conoscere.”
"Il ROS non si è mai appiattito sui teoremi, sulle verità preconfezionate. Ha invece percorso strade molto spesso scomode e pe rquesto ha subito gli attacchi dei benpensanti. Soprattutto nei primi anni, il ROS è finito nel mirino dei "professionisti dell'antimafia" come li definiva un intellettuale acuto come Leonardo Sciascia, il quale, da siciliano profondamente conoscitore della sua cultura e della sua psicologia, sapeva benissimo che il confine tra il Bene e il Male non è mai nettissimo. Noi del ROS costituivamo una minaccia per l'equilibrio imposto dai corleonesi e dai loro protettori. 
Ci furono avevrtimenti con inviti chiarissimi e trasversali a rietrare nei ranghi e a tenere comportamenti investigativi più allineati; inviti che naturalmente non accogliemmo, perché sapevamo di essere dalla parte della ragione."

Commenti conclusivi del libro:
"Nel corso della vita di ciascuno di noi affiora sempre la tentazione di limitare i danni, esponendosi poco e lesinando la fiducia. Ma non sempre la ricerca del quieto vivere è la soluzione migliore, soprattutto quando hai a che fare con altri uomini, come capita a chi detiene il comando. Se potessi tornare indietro, alcune cose non le rifarei, ma non sono molte. Ho affrontato gli impegni della mia professione sempre con convinzione e con risultati che sono andati anche ben oltre i miei reali meriti. E se è vero che si vive per quello che si dà, io sono molto soddisfatto di quello che ho dato e ricevuto".



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1 commento:

  1. Ieri a Roma è andato in scena un incontro storico, che raccontiamo oggi sul Foglio, fra il generale Mario Mori (accusato per oltre un decennio della cosiddetta “trattativa Stato-mafia” e poi assolto) e Antonio Ingroia, che da pm ideò per primo quel teorema e processò Mori e gli altri servitori dello Stato, tutti assolti.
    Ingroia ha avuto l’audacia di dire che chiederebbe “di nuovo il rinvio a giudizio di tutti gli indagati” e ha pure tirato in ballo l’ex presidente Giorgio Napolitano: “Se non avesse sollevato il famoso conflitto di attribuzione oggi saremmo al tempo della verità”. Peccato che il destinatario dell’accusa di Ingroia sia nel frattempo morto e non abbia la possibilità di replicare. Questione di stile…
    Mori ha ribattuto: “All’epoca Ingroia conosceva me e De Donno. Potevamo essere accusati di errori, di sbagli, ma non di aver tradito lo stato. E’ questo che mi innervosisce tuttora. Sono stato accusato di aver tradito lo stato insieme a Riina e Provenzano, cioè i soggetti per la cui cattura ho lavorato tutta la mia carriera. L’ho trovato inaccettabile”.

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